STUDIARE TEOLOGIA CON LO SGUARDO AL CIELO E I PIEDI PER TERRA. SENZA RISPOSTE PRECONFEZIONATE

Non abitiamo un mondo normale. Non riusciamo ad abituarci al brutto, alle guerre e alla sofferenza, anche se a volte il cuore rischia di cicatrizzarsi davanti all’ennesima tragedia che scorre nel sottopancia di un tg e che leggiamo a volte un po’ distratti. Non riusciamo nemmeno ad abituarci al bello: la nascita di un bambino, un paesaggio stupendo, un amore ricambiato, beh, neppure quelli sono normali.

Studiare teologia non vuol dire imparare delle formulette a memoria, inchinandosi a questa o quella dottrina religiosa. Vuol dire partire da quello sgomento (“Perché Dio, o chi per te, hai permesso tutto questo?”) o da quell’entusiasmo (“Perché hai fatto una cosa così bella per me?”) e mettersi in cammino. Sarebbe un po’ presuntuoso, anche per il più solitario dei lupi solitari, volerlo fare da soli. Filosofi, storici, religiosi, preti di biblioteca e preti di marciapiede, papi e non credenti: una marea di persone, del passato e dei giorni nostri, ha alzato lo sguardo verso il cielo.

Qualcuno lo ha pure sorvolato, come l’astronauta Paolo Nespoli, che ha detto di trovare “istintivo pensare a quanto non solo tutta la meraviglia che vedo non sembri casuale, ma pure che dev’esserci stato qualcuno con una conoscenza molto superiore alla nostra – che poi è la mia definizione di Dio – per mettere tutto al suo posto”.

Una recente indagine su cultura e territorio offre risultati promettenti per quanto riguarda le “culture ibride” (discipline umanistiche e informazione). Una teologia che non ha paura di “sporcarsi le mani”, mettendosi in dialogo, può aprire nuovi orizzonti. Perché, come la scienza, la letteratura e ogni altro sapere, indaga su un mondo che – purtroppo o per fortuna – tanto normale non è.

La presentazione della mia tesi dal titolo “Hai un momento, Dio? Il rock di Luciano Ligabue in dialogo con il cielo”
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