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«CARA MAESTRA, ASPETTO LA FELICITÀ»

Non so chi l’abbia scritto, ma di certo ho incrociato il suo sguardo. È una bambina di terza elementare di una scuola emiliana nella quale ho insegnato lo scorso anno. La maestra – Assunta, beata la classe che “ce l’ha” – ha mostrato su Facebook un biglietto fatto scrivere e disegnare in classe di ritorno dalle lunghe vacanze. Cosa vi aspettate quest’anno? La bambina prima scrive qualcosa di dolce e simpatico: «Sogno di imparare tante cose sugli animali di mare», poi piazza – involontariamente – il colpo: «Inoltre aspetto la felicità». È tutto magnifico: sia il desiderio (perché accontentarsi di una giornata liscia, quando si può sperare in meglio?), sia il fatto che a introdurlo sia un “inoltre”, che in genere precede qualcosa di secondario, o comunque un’aggiunta in un discorso che già si potrebbe chiudere da solo (“Gioco a basket, inoltre vado al corso di tennis”). Qui invece l’ «inoltre» ci sorprende, aprendoci alla speranza più bella. Perché è bello desiderare la felicità e non avere paura di dirlo.

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